Quasi due anni fa parlavamo di questa stessa vicenda, che ormai si trascina da otto anni. E, incredibilmente, non è ancora finita.
L’oggetto del dibattito è il sistema Android, scritto (in gran parte) in Java, grazie alla sua particolarità di generare del codice eseguibile da una grande varietà di dispositivi tramite un programma, la Java Virtual Machine, specifico per il dispositivo. Le specifiche del linguaggio sono libere, ma le implementazioni sono molte; quella di riferimento è sotto copyright ed era distribuita – gratuitamente – da SUN. Nel 2010 Oracle compra SUN, con la sua implemetentazione, e da allora reclama un risarcimento danni a Google per aver usato Java senza permesso.
Esponiamo l’ultima puntata della saga, ma più sotto trovate un riassunto.
A maggio del 2016 la giuria aveva decretato che quello di Google era a tutti gli effetti un uso equo (fair use), ovvero un uso senza fine di lucro (dato che Android, in sé, è opensource e distribuito gratuitamente). Ma il giudice, pochi giorni fa, ha deciso che questa decisione era tecnicamente sbagliata: il fatto che fosse “poco” codice non implicava fosse “poco importante” (uno dei possibili requisiti per il fair use), e quindi ha ribaltato la sentenza: Google ha torto e deve pagare i danni ad Oracle. Quanto? Altro processo per definirlo, ma Oracle chiede non meno di 8,8 miliardi di dollari: 3 volte il fatturato di RedHat.
Le armi a disposizione di Google per evitare un tale esborso sono molte poche; la più efficacie, il ricorso alla corte suprema della California, potrebbe essere anche la più spuntata: già nel 2014 ha tentato questa strada, e la corte ha semplicemente declinato la richiesta. Forse, questa volta, dovrò davvero pagare.
In realtà il problema non è solo una questione di soldi tra Google e Oracle, ma rappresenta un precedente pericolo per l’opensource in generale, in quanto le API rappresentano il codice “di contatto” tra un programma e l’altro, create proprio con l’intento di essere riusate e distribuite: il precedente per cui sono coperte da copyright e non possono essere nemmeno re-implementate rappresenta un concreto ostacolo al loro riuso, ed al riuso del codice in generale.
La sentenza cerca di limitare l’effetto a questo caso, ma rimane davvero indubbio che uno sviluppatore, prima di usare codice scritto da altri, ci penserà almeno due volte…
Piccolo riassunto
Il contendere è il sistema Android (e nello specifico gli introiti generati da esso), il celeberrimo – e usatissimo – sistema operativo oramai sinonimo di smartphone – almeno come unica alternativa ad Apple ed al suo iOS.
Android è basato su Java, che di per sé è un linguaggio opensource, ovvero le sue specifiche sono di pubblico dominio, ma l’implementazione di quelle specifiche, ovvero il codice che viene effettivamente eseguito da un computer, può essere messa sotto copyright, come qualsiasi altro software. Nello specifico, in questo caso, si parla delle API, ovvero la parte più superficiale dell’implementazione fatta apposta per interagire con altri programmi – o diventarne parte.
Quando Google iniziò lo sviluppo di Android, alcune di queste interfacce non erano disponibili per il Java usato dai telefonini, e pensò di ricreare (copiare, se volete) quelle usate sui PC, prendendo spunto dall’implementazione che era (ed è) quella di riferimento: quella di Sun – nel frattempo comprata da Oracle. Il tutto, però, senza chiedere esplicitamente il permesso.
Appena acquisita Sun, Oracle intenta la (prima) causa, che genera una vera e propria telenovela:
- 2010 – Oracle dice che sono stati infranti dei brevetti e che le API sono sotto copyright: perde subito sul brevetto. Google sostiene di rientrare nel caso di fair use.
- 2012 – Oracle perde anche sul copyright: per il giudice le API e il codice sono cose diverse, e le prime non sono coperte; fa ricorso.
- 2014 – Oracle vince: all’appello si stabilisce che le API sono sotto copyright. Google sostiene che allora rientra in gioco il fair use: la giuria deve esprimersi.
- 2016 – (puntata scorsa) La giuria stabilisce che Google rientra nella fair use. Ma manca ancora la sentenza…
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