Leggendo questo articolo di Salil Deshpande l’accusa appare chiara: le grandi compagnie che operano nel cloud, Amazon su tutte, stanno mangiando alle spalle del software open-source. Già perché i servizi offerti, nel caso specifico di Amazon gli AWS, sono basati su software open-source costato nulla, pertanto è chiaro, siamo di fronte ad un abuso, per il quale esiste un’unica soluzione: una clausola definita commons.
O almeno è questa la tesi dell’autore che a sostegno della sua tesi riporta l’adesione all’utilizzo della common clause da parte di Redis (il popolare database utilizzato in ambito cloud). Ma cosa dice questa clausola? Sintetizzando:
[…] the Redis Labs add-on modules will include the Commons Clause rider, which makes the source code available, without the ability to “sell” the modules, where “sell” includes offering them as a commercial service
[…] I moduli add-on di Redis Labs includeranno la clausola Commons, che rende il codice sorgente disponibile, ma senza la possibilità di “vendita” dei moduli, dove “vendita” include l’offerta degli stessi mediante un servizio commerciale
Quindi, prosegue lo stesso autore, aziende come General Motors potranno continuare ad usare il tutto come prima, ma Amazon no, perché Amazon ci fa i soldi.
Amazon, il male.
Ora. Al di là della palese presa di posizione contro Amazon, per la quale vengono segnalate opinioni di (ex) dipendenti (ovviamente anonimi) che ne denunciano le condizioni di lavoro indegne, l’articolo però porta a porsi un’interessante domanda: fino a quando il software open-source è giusto rimanga ancorato ai suoi principi? Tutti dovrebbero adottare clausole nella distribuzione del proprio software? Sarà quindi possibile decidere arbitrariamente dove destinare il proprio (termine da cui deriva un altra parola, proprietario, decisamente avversa alle community open-source di tutto il mondo) software in base alle antipatie o ai giudizi generali espressi su un’azienda?
Ed infine, per logica, perché Amazon no e General Motors sì? Non sono entrambe aziende il cui scopo finale è compiacere i propri azionisti e guadagnare il denaro? Che differenza fa se il software open-source viene venduto come servizio oppure è installato nel cruscotto IoT della macchina che viene, anch’essa, venduta?
Ted Dunning, non l’ultimo arrivato, nel commentare l’articolo fornisce il miglior chiarimento possibile, insieme alla sua posizione:
I use an open source license because I want to share the software. I long ago realized that if I didn’t want to share, I shouldn’t pretend I did want to while adding restrictions to the sharing. And if I really do want to share, I shouldn’t feel bad if somebody made money of the software I shared with them.
Uso licenze open source perché voglio condividere il software. Ho realizzato da tempo che se non voglio condividere non posso pretendere di fare quel che voglio, aggiungendo restrizioni alla condivisione. E se voglio davvero condividere non dovrei prender male il fatto che qualcuno guadagna dal software condiviso con loro.
Cos’altro aggiungere se non “sante parole.
Leggi il contenuto originale su Mia mamma usa Linux!